Vitamina D e attività sportiva: cosa c’è da sapere

La carenza di vitamina D è stata collegata a un po’ di tutto, dalla salute delle ossa e dei muscoli al benessere emotivo. Forse un po’ troppo… In realtà, il problema della carenza vitaminica esiste, anche se forse è stato un po’ tanto enfatizzato dai media, o più spesso proposto in modo distorto, rispetto alle effettive evidenze di letteratura, e quasi sempre a fini commerciali.  Quando la carenza di un nutriente diventa praticamente “universale”, sorge spontanea la domanda se le basi su cui si fonda la diagnosi siano veramente efficaci e se non vi sia, viceversa, un forte interesse commerciale nel sostenerne la presunta carenza, a prescindere da età, sesso, nazione, latitudine o tipo di alimentazione.

Si consideri che, al momento, in Italia il dosaggio della vitamina D è diventato uno degli esami specialistici di laboratorio più prescritti (e più costosi…), mentre il consumo di preparati a base di vitamina D ha nel frattempo raggiunto (per lo più del tutto immotivatamente) fatturati assolutamente impensabili anche solo 5 anni fa. Ne tratteremo in modo più dettagliato in altri prossimi articoli, ma intanto vi propongo di seguito alcune riflessioni in merito, prendendo spunto anche da un lavoro molto interessante apparso su Sports Medicine nel 2018, ancora attualissimo, che fa il punto sui rapporti tra vitamina D e attività sportiva, alla luce delle attuali evidenze scientifiche. La vitamina D è stata ampiamente studiata, dimostrando di possedere un ruolo importante per la salute delle ossa, la crescita muscolare, il recupero e la funzione immunitaria, compresa la lotta contro le infezioni virali. La vitamina D è stata correlata anche con il contenimento della pressione sanguigna e la salute del cuore e persino con il benessere emotivo, anche se in realtà non esistono affatto sufficienti evidenze ad avvalorare tali ipotesi. Sebbene si sia fortemente esagerato in termini di un possibile ruolo effettivo della vitamina D in molti di questi quadri, e nonostante il livello qualitativo degli studi dai quali sono state estrapolate tali teorie lasci spesso molto a desiderare, non c’è dubbio che essa rivesta un’importante funzione a vari livelli, e per questo ne deve essere garantito un normale apporto, soprattutto nelle età più mature e nelle donne. Inoltre, gli atleti interessati a massimizzare le loro prestazioni dovrebbero considerare che molti studi hanno puntato l’attenzione sulla vitamina D come “fundamental player” capace di influenzare positivamente le prestazioni sportive e il recupero funzionale.

La vitamina D è costituita da un gruppo di così detti secosteroidi liposolubili, necessari per l’assorbimento intestinale di minerali, quali calcio, magnesio e fosfato, e per molte altre funzioni biologiche. Il composto più importante di questo gruppo è costituito dalla vitamina D3 (detta anche colecalciferolo), che per svolgere la propria attività biologica deve prima essere trasformato in calcitriolo, a livello epatico e nell’osso, la forma biologicamente attiva della vitamina D. E’ proprio qui che sta il punto: per funzionare, la vitamina D ha bisogno di essere “attivata”, e l’elemento fondamentale per garantire lo “start” di tale attivazione è costituito dalla luce solare (in particolare i raggi UVB).  La previtamina D3, infatti, o 7-deidrocolesterolo (7 DHC), principalmente di origine alimentare, subisce una fotosintesi a livello cutaneo regolata dall’esposizione ai raggi ultravioletti che la converte in vitamina D3 (colecalciferolo).
Quando il colecalciferolo entra nel circolo ematico, viene assorbito dal fegato, dove è metabolizzato in 25-idrossivitamina D3 (25 -OH-D3), che è la quota predominante di vitamina D presente nella popolazione normale, e infine in calcitriolo.
Oltre che dal colecalciferolo, la 25-OH-D3 deriva anche, per una quota meno significativa, dalla metabolizzazione dell’ergocalciferolo (vitamina D2) che proviene unicamente da fonti alimentari.

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L’80-90% del fabbisogno di vitamina D, perciò, è soddisfatto dall’esposizione ai raggi UVB e solo fino a un massimo del 10-20% è garantito da fonti alimentari. Poiché, però, la maggior parte degli adulti in età lavorativa trascorre la maggior parte delle ore del giorno al chiuso, non ci si può sorprendere che la carenza di vitamina D possa potenzialmente coinvolgere un numero notevole di individui. Secondo alcune stime commercialmente “guidate” essa potrebbe essere carente, in proporzioni diverse, fino all’80% della popolazione mondiale. Quasi una pandemia! Impossibile crederci.

Per quanto riguarda gli atleti, però, è utile sapere che studi anche molto recenti ed autorevoli hanno dimostrato che la carenza di vitamina D può influenzare in modo consistente e negativo la funzione e la forza muscolare, e ridurre le difese immunitarie e la capacità di guarigione dopo eventuali traumi sportivi che coinvolgano muscolatura e ossa. Questo non significa affatto che sia razionale supplementare tutti gli atleti indiscriminatamente con integratori a base di vitamina D. Tale atteggiamento, recentemente molto in voga anche in Italia da parte di allenatori senza scrupoli, non solo non ha alcuna logica, né è in grado di apportare significativi benefici a chi lo persegue, ma è estremamente rischioso qualora l’atleta non necessiti affatto di tale supplementazione. L’analisi degli Autori del lavoro apparso su Sports Medicine è molto chiara in questo senso. 

Ecco perché l’integrazione mirata alle caratteristiche di ciascun atleta e il monitoraggio costante della situazione dell’asset biochimico dello sportivo praticante è assolutamente indispensabile per garantire la salute e la sicurezza e soprattutto il tipo di integrazione più idonea per ciascuno sportivo, permettendo di integrare alle dosi giuste e al momento più idoneo, e solo se e dove è veramente necessario. In merito, si consideri che la maggior parte dei così detti valori normali, o valori soglia, o peggio “desiderabili”, espressi da molti laboratori sono assolutamente insufficienti per giustificare eventuali carenze e/o la necessità di un aumentato apporto di vitamina D, e che esiste un’importante variabilità razziale nei valori “normali” per nulla codificata, oltre alla necessità di disporre di un marcatore di carenza vitaminica ben più preciso di quello ad oggi utilizzato. Solo un’analisi olistica del soggetto, soprattutto se sportivo, che comprenda tutta una serie di parametri fisici e biochimici, è in grado davvero di inquadrare la necessità o meno di integrare la dieta con l’apporto di specifici nutrienti.

Se manca il sole…

Si è detto della necessità di esporsi al sole, e più in particolare ai raggi UVB, per consentire la trasformazione della vitamina D3 in forma biologicamente attiva. Però non tutti i periodi di irraggiamento diurno sono uguali per produrre efficacemente questa trasformazione. Gli UVB, infatti, raggiungono il loto apice nell’atmosfera solo quando il sole raggiunge i 35 gradi, altrimenti noto come mezzogiorno solare. Se ci si allontana da questo limite, come avviene spesso nei mesi invernali in Paesi oltre il trentacinquesimo parallelo, il sole non raggiungerà mai l’angolatura necessaria per la migliore penetrazione degli UVB, il che significa zero opportunità per la produzione di vitamina D.

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Inoltre, chiunque si esponga al sole, anche nella sua massima espressione di UVB, utilizzando una protezione solare elevata, non sarà comunque in grado di produrre vitamina D. Oltre a ciò, giocano più o meno negativamente anche le caratteristiche fisiche di ciascun individuo, tra cui la tonalità della pelle, una maggiore o minore quota di grasso corporeo, l’età avanzata (oltre i 50 anni), tutti fattori che possono portare a tempi di produzione di vitamina D molto più lenti e a un maggiore rischio di carenza. 
Infine, non si dimentichi che chi si allena durante l’inverno prevalentemente al chiuso, rischia maggiormente una carenza di vitamina D.

Perciò…tutti alle Canarie d’inverno? Potendo, potrebbe essere una buona idea. 
Lo è sicuramente per gli atleti e i triatleti professionisti che, in effetti, anche per altri motivi (clima mite, maggiore disponibilità di spazi e percorsi di allenamento), hanno da anni preso dimora nelle isole spagnole durante i mesi invernali, garantendosi così anche livelli ottimali di vitamina D, senza bisogno di assumere alcun integratore. 
Per chi invece alla Canarie d’inverno non ci va, sappia comunque che la maggior parte degli individui è in grado di mantenere corretti livelli di vitamina D semplicemente stando all’aperto il più possibile, esponendosi al sole senza protezione, e mantenendo una dieta sana e variata, senza la necessità di utilizzare inutili e costosi integratori.